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News La Pace di Chiavenna
Data inserimento : 24 marzo 2023

C’è a Chiavenna un oggetto d’arte talmente raro e singolare che da solo potrebbe giustificare un museo. È la “Pace”, un capolavoro di oreficeria romanica, composto da 25 lamine d’oro, fissate su una tavola di noce di poco più di 41 centimetri per 31, tempestato da un centinaio di perle e da altrettante gemme, alcune delle quali a cammeo, cioè decorate in miniatura con figure. L’opera viene datata all’XI secolo sulla base del radiocarbonio, precisamente tra il 1030 e il 1090. Non sappiamo con certezza come sia arrivata a Chiavenna, dove comunque figura nei primi inventari, dov’è indicata nel 1485 come “tavoleta seu caputevangelium” e l’anno dopo come “tavoleta seu testa-evangelium”. Perché si chiama Pace? Sul nome, chi lo deriva dalla scritta “Pax vita”, posta in verticale al centro verso il basso, chi dal fatto che fu tradizionalmente utilizzata durante le Messe solenni per il bacio della pace, oggi sostituito da una stretta di mano. Fino a oltre la metà del ’900 veniva infatti baciata dai confratelli durante il canto polifonico del “Credo”, mentre oggi questo avviene per tutti i partecipanti al termine della Messa solenne solo il 10 agosto, festa di san Lorenzo, il patrono della città. Alcuni studiosi hanno suggerito ultimamente di chiamarla evangeliario di Chiavenna, potendo anche considerarla coperta del contenitore o della cassa del libro dei vangeli. Del resto – aggiungo io – i termini latini “caput” e “testa”, che compaiono negli inventari quattrocenteschi, significano anche inizio e contenitore. In ogni modo è inaccettabile pretendere di cambiare un nome che da secoli identifica un’opera. Lo stesso processo è in atto per due palazzi, stando in zona: il Vertemate a Piuro e il Salis a Chiavenna. Sono chiamati palazzi da quando sono nati, il primo a metà ’500, il secondo a metà ’700, e ora c’è qualche illuminato che preferisce “palazzetto” per il primo e “villa” per il secondo! Si rispetti la tradizione locale. Credo che chi vi abita abbia il sacrosanto diritto di chiamare le cose come hanno voluto i suoi antenati, senza sentirsi imporre variazioni dall’esterno. La tradizione Un’antica tradizione, tramandata oralmente, vuole che la Pace sia stata donata da un vescovo francese o tedesco. La mente corre al cancelliere imperiale Cristiano, arcivescovo di Magonza, che ai primi di marzo del 1176 accompagnò Federico Barbarossa a Chiavenna all’incontro con il cugino Enrico il Leone, duca di Baviera e di Sassonia. Lo aveva qui convocato l’imperatore, essendo un borgo ghibellino, quindi a lui favorevole, e trovandosi a metà strada tra Pavia, dov’era allora, e Monaco dove stava il cugino. Lo scopo era quello di chiedere a Enrico il suo esercito per contrastare i comuni lombardi che non volevano riconoscere la dipendenza imperiale. Il tentativo fu inutile perché, per precedenti dissidi, Enrico, semplice vassallo, rifiutò il suo aiuto nonostante il capo del Sacro Romano Impero si fosse addirittura inginocchiato davanti a lui. E meno di tre mesi dopo arrivò la cocente sconfitta imperiale di Legnano. In cambio dell’ospitalità riservatagli da Chiavenna , Barbarossa potrebbe aver lasciato la “Pace”. Così porta a pensare la tradizione, con la quale è d’obbligo procedere – come si dice – con i piedi di piombo. Fino ad alcuni decenni or sono la “Pace” era ritenuta di arte tedesca, mentre oggi si propende per considerarla opera lombarda di committenza imperiale. Oro sbalzato e in filigrana Innanzi tutto l’attenzione è attratta dalla grande croce centrale in filigrana d’oro, il cui braccio è ripreso da due tondi con la stessa finissima lavorazione. Altri dodici simili sono disseminati lungo la cornice dell’opera. L’oro è lavorato a sbalzo in quattro quadrati simmetrici che rappresentano gli evangelisti, indicati dal nome e dal rispettivo simbolo: dall’alto l’angelo per Matteo, l’aquila per Giovanni, il bue per Luca e il leone per Marco. Oltre alle due parole citate, un’altra scritta è sbalzata nell’oro al centro della parte superiore: “+ Vivant in Christum regnum teneant per ipsum qui fecerant tantum faciuntve condere factum”, cioè Vivano in Cristo e ottengano per mezzo suo il regno coloro che avevano fatto e che fanno fare un’opera così importante. Analizzando il tempo dei verbi si nota che essi si riferiscono sia a quelli che avevano lavorato in passato, sia a quelli che l’avevano voluta allora. Tra i primi potrebbero esserci quelli che nel primo o secondo secolo dopo Cristo fecero alcune pietre preziose, come si vedrà, e tra i secondi quanti nell’XI secolo fecero confezionare e assemblare l’opera. Pietre preziose e smalti Sia nella croce centrale che nei rosoni sono inserite perle e gemme: 94 le prime, 97 le seconde, tra granati, smeraldi, topazi e zaffìri. Tra le gemme, provenienti dall’Oriente, forse dallo Sri Lanka, cinque sono cammei di epoca romana. In particolare, quello a sinistra in alto raffigura un efebo danzante, quello nell’angolo destro in basso due ninfe danzanti, mentre quello ai piedi dello smalto della Madonna porta la scritta araba “sana’a barakat”, interpretata come “fatta benedizione”, cioè una specie di grazia ricevuta, oppure come Barakat fece, la firma dell’autore o del committente, con un cognome tuttora presente in Oriente e in Africa. Comunque sia, i cammei sembrano inseriti, indipendentemente dal loro significato, come puro elemento decorativo. Tra gli elementi di maggior pregio della “Pace” figurano i quattro smalti policromi del tipo cloisonné, cioè con fili d’oro delimitanti gli spazi e le figure in cui si è poi colato lo smalto. Sono di forma ovale e sono collocati verso l’esterno, a metà di ciascun lato. In alto è il Cristo pantocràtore, cioè onnipotente; ai lati l’angelo a sinistra e la Madonna sulla destra (il cui nome è sbalzato) a rappresentare la scena dell’annunciazione; in basso l’incontro di Maria ed Elisabetta (con l’indicazione di entrambi i nomi). L’altra dozzina di smalti rettangolari reca soggetti decorativi. Un’opera che merita di più Come altri oggetti preziosi, la “Pace” di Chiavenna durante la grande guerra, nel 1917, per ordine della direzione generale delle belle arti fu portata al sicuro a Roma, nei sotterranei della Banca d’Italia, da cui tre anni dopo tornò. Nella consapevolezza della sua importanza, l’arciprete don Pietro Bormetti nel 1957 volle un museo di arte sacra, il primo del genere in tutta la diocesi di Como. Oggi, dopo l’ampliamento e la ristrutturazione del 1998, il Museo del Tesoro nella canonica di San Lorenzo è una delle attrattive principali, essendo esposte, con la “Pace” che segna la fine del percorso, tante altre opere d’arte: dai tessuti alle tele, dalle statue lignee del ’400 e ’500 alla ricca argenteria. Tuttavia, nonostante tanta ricchezza (la “Pace” è stata richiesta da tanti musei in Europa: l’ultima volta a palazzo Reale di Milano), risulta che solo 1433 persone sono entrate l’anno scorso al Tesoro. A mancare sono innanzi tutto quelli che abitano più vicino e che dovrebbero essere i primi a riappropriarsi delle propria cultura. Intendiamoci: non è una carenza dei soli valchiavennaschi, ma un fenomeno comune a molti che, vivendo a due passi da importanti testimonianze di storia e di arte, ne rimandano sempre la visita, non effettuandola mai. Amo sperare che le cose cambino e per questo ricordo a loro e a tutti i lettori che il Tesoro è aperto al pubblico tutti i giorni, tranne lunedì, dalle 15 alle 18, al sabato anche dalle 10 alle 12. Guido Scaramellini


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